Terremoto

«Qualche volta una specie di gloria illumina lo spirito di un uomo. Succede quasi a tutti. Lo si può sentir venire su o prepararsi come il detonatore che sta per dare fuoco alla dinamite. È un sentimento nello stomaco, un piacere dei nervi, degli avambracci. La pelle gusta lʼaria e ogni respiro profondo è dolce. I suoi inizi danno il piacere di un bello sbadiglio aperto; balena nel cervello e tutto il mondo se ne accende davanti agli occhi. […] E io credo che lʼimportanza di un uomo nel mondo possa essere misurata dalla qualità e dal numero delle sue glorie. È qualcosa di solitario ma ci mette in rapporto con il mondo. È madre di ogni creatività, e separa ogni uomo dagli altri»
[John Steinbeck, La Valle dell’Eden]

 

Quando, dopo il terremoto del 6 aprile, decisi di partire per prestare servizio come volontaria di protezione civile, non sapevo a cosa sarei andata incontro, sapevo però perché avevo deciso di partire. E già questo non è poco, visto che spesso capita di decidere di compiere azioni senza una vera ragione.
Partivo perché banalmente ero colpita da questa tragedia umana, perché volevo rendermi utile anche pulendo cessi e zappando. Perché pensavo che potevo esserci io al loro posto e avrei voluto tante persone vicine e intorno a me, per pensare che la vita può andare avanti.
E questo è il «perché».
Ma c’è anche il «come», il come emotivo beninteso.
Partivo in un momento in cui la realtà quotidiana mi stava schiacciando: delusioni, insoddisfazioni, difficoltà e, a seguire, qualsiasi altra parola capace di vestire la depressione. La perdita di senso può diventare malattia e condurre un individuo normale a una condizione esistenziale stupida e mediocre.
Quando ti accorgi che non esiste grazia o bellezza capisci che la realtà è un oggetto del quale vorresti sbarazzarti il più in fretta possibile. Un rifiuto a conferimento speciale, che genera anch’esso un’economia della cura per farti tirare avanti, per fare «come se» tutto andasse per il meglio.
Ma non va nulla per il meglio. Il lavoro con regole clientelari, attori con facce da competizione, assenza di qualità, o meglio qualità nemmeno richiesta. Lo sappiamo tutti, diciamo che in fondo è così, e non facciamo nulla. Non votiamo nemmeno come vorremmo. Il «tanto non cambia nulla» è il moderno monito del principe di Salina.
Tristemente siamo ancora lì.
Si rabbercia una cosa qui e una cosa lì, tirando a campare. Per non parlare delle relazioni umane o delle relazioni affettive. Sì, non parliamone.
Scrive Roberto Saviano «Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento bravura, maestria, impegno vengono fusi in unʼazione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa.»
E così invece di affondare nelle sabbie mobili, invece di stendermi nel nulla, decisi di partire per l’Abruzzo.
Non racconterò del terremoto con magnitudo 6.3, della situazione che trovai, sappiamo già tutto, o delle difficoltà quotidiane delle persone che in qualche minuto hanno perso casa, lavoro, amici, luoghi, abitudini, futuro. No, non lo racconterò, per rispetto, perché non saprei trovare le parole adeguate.
Non racconterò di quel terremoto, ma del terremoto di anime che ha colto di sorpresa un’umanità variegata: campione casuale di una specie che sembrava avesse smarrito qualcosa.
Cosa succede quando persone, le più eterogenee e disparate, da parti diverse del paese, si trovano, si incontrano, dormono con persone sconosciute, maschi e femmine, stanno insieme, lavorano per raggiungere un obiettivo comune e condiviso?
Succede che i volontari, perché proprio di loro vorrei parlare, si alzano alle 5 del mattino per fare la doccia negli orari consentiti, si riuniscono per l’affidamento dei compiti giornalieri; chi apre l’ufficio della segreteria del campo, chi va a fare i lavori di manutenzione, chi prepara la colazione e poi il pranzo, chi comincia a occuparsi di burocrazie oscure, chi va ad occuparsi degli approvvigionamenti, chi accoglie le forze dell’ordine in visita al campo e offre una tazza di caffè, chi parla con i vigili del fuoco, chi ordina la bacheca, chi pulisce i bagni, chi sistema il cancello di legno, chi apre i magazzini.
Un piccolo paese in grande attività, dove ognuno alla fine si ritaglia il proprio spazio in base a competenze vere o presunte, che farà più o meno bene il proprio lavoro, che prenderà una pausa chiacchierando con l’uno o l’altro, che farà il bucato per il proprio gruppo, che fumerà una sigaretta al sole, che scherzerà parlando di uomini o di donne.
Una comunità attiva dove però, per alcuni, si produce un particolare fenomeno. La caduta di tutte quelle sovrastrutture che nella società, diciamo reale, sembrano tenere insieme le relazioni sociali.
Persone sconosciute che capisci se sono amiche o nemiche nei primi 30 secondi, persone alle quali confidare pezzi della tua vita in totale fiducia e libertà, persone che vuoi conoscere, persone che capisci con un semplice sguardo o una stretta di mano.
È come se tutti i sensi si fossero improvvisamente svegliati, mentre la logica e la razionalità ritornano ad essere ciò che sono: strumenti utili che non possono governare le cose degli uomini. È come quando vai in treno e ti trovi a raccontare al vicino la tua vita. Poi tanto si scende e non ci si vede più. Ma qui è diverso.
Scopri piano piano che altre persone intorno a te sono lì con il fardello di qualche frattura, di qualche dubbio sulla propria esistenza, o che proprio stando lì conoscono mondi nuovi, mai esplorati, mondi di persone che forse non avrebbero mai conosciuto, o che capiscono di essere alla ricerca di senso. E il trovarlo non è perché si è lì per aiutare qualcuno, e di questo non me ne vogliano le genti di Abruzzo, ma per differenza.
La vita del campo ti mette di fronte a cose concrete e reali, ti forza ad un contatto umano senza ruoli e condizionamenti. Esseri umani il cui unico bagaglio è il proprio modo di essere, con pregi e difetti, incertezze e sicurezze, cultura e ignoranza. Lo stesso fatto di avere tutti una divisa è come annullare lʼultimo baluardo del riconoscimento per ceto, per classe. Inizialmente l’effetto è di perdita degli orientamenti che nel mondo conosciuto, ci fanno da censori nelle relazioni: questo sì, questo no, questo è bene questo è male, questo è fico questo no.
Invece dopo, questa forzatura costringe a vedere la persona, al di là di tutto. Bastano la voce, gli occhi, la fisicità per capire chi abbiamo di fronte e se è il caso di entrare nel cerchio dell’altro o fare entrare l’altro nel nostro.
Di quei giorni ricordo i volti e le energie di ognuno. E vi assicuro, alcune erano bellissime, tanto da portarle come un tesoro al rientro a casa.
Un rientro difficile e duro, perché ti prende il Mal d’Africa, perché sei estraneo alla tua vita quotidiana, perché vorresti tornare lì e fermare il tempo, perché ti manca anche lo scomodo letto e le tende da otto persone, o il russare o la mancanza totale di intimità. Ti manca in fondo una dimensione di libertà e naturalezza che la vita «a casa» ha perso senza nemmeno che ce ne accorgessimo. Ti manca una cosa importante l’essere felice. Sì, perché lì siamo stati felici. E non è retorica.
Perché «a casa» ci sono obblighi, responsabilità, abitudini e doveri che forse ci hanno stancato, o che non capiamo più, perché in fondo non li abbiamo mai capiti. Il desiderio di una vita «altra» è palpabile.
Diciamo di voler tornare alle cose essenziali e alle relazioni vere, lo diciamo sempre, ma poi, alla fine, ci pieghiamo al «come se», come se tutto andasse bene. Non ascoltiamo la voce della felicità. Non osiamo nemmeno scrivere o parlare della felicità, perché ha poca attrattiva. La depressione, invece, le nevrosi il dolore assumono un peso, uno status che ci dà addirittura un ruolo sociale.
Pensate a quante volte qualcuno vi dice che va in vacanza, quasi sentendosi in colpa, scusandosi.
Gioire e godere non sono ammessi da coloro che faticano-per-andare-avanti, che guardano con sospetto alle manifestazioni del piacere vero e profondo, alla gratuità, a incontri dove non ha importanza che-lavoro-fai, da-dove-vieni, dove-abiti, ma solo quello che hai di fronte e quello che sei capace di donare senza voler ricevere in cambio nulla.
La dimensione della felicità per me è quella che ora mi fa dormire con le braccia aperte e non raggomitolata e chiusa, che mi tira fuori un sorriso per affrontare giornate pesanti, che rallenta il ritmo dei giorni, che mi fa gustare piccoli istanti, che tiene a bada una quotidianità ansiogena e sterile, semplicemente infelice, che mi fa ritrovare la passione e la carnalità dell’esistenza.

Cambiare significa a volte, cambiare le prospettive, dichiarare ciò che ci piace o non ci piace, desiderare senza possedere, mettere le giuste distanze tra sé e il mondo che ci circonda. È difficile? Sì, assolutamente difficile. Ma tentare ne vale la pena. Oggi comprendo che viviamo una solitudine delle emozioni così profonda e strutturale da averci fatto perdere la dimensione vitale. Erranti, ci affanniamo a tenere insieme i pezzi. A volte reagiamo violentemente, ma senza forza. Cerchiamo certezze al di fuori di noi, ma in fondo siamo liquefatti da questa società-dei-consumi-senza-valori. Se il caso e la fortuna ci assistono potremo andare in pensione e forse vivere mestamente i nostri ultimi giorni. Ma come potrai essere sereno se in tutti questi anni cisiamo fatti consumare da vampiri: datori di lavoro, burocrazie, politici, televisione, figli, mariti, mogli, genitori, amanti, amici, economie, illegalità?
Quello che bisogna cambiare è purtroppo solo e dentro di noi; capirlo non è poco, farlo è forse da matti.
Tutti noi, che abbiamo vissuto quel momento di «gloria che illumina lo spirito», siamo tornati confusi e dubbiosi. Abbiamo svelato ciò che avevamo paura di scoprire: la nostra infelicità. Alcuni di noi lo hanno capito e stanno creando percorsi diversi e nuovi, stanno cambiando prospettive, è un meraviglioso cantiere aperto. Gli altri non so.
Oltre al presente, abbiamo da vivere il futuro e questo non ci lascia scampo. Il futuro è tra un minuto, un mese, tra un anno o anche tra dieci anni. Ed io non voglio perdermi il “mio” futuro.
Per questo nella vita ogni tanto bisogna fare qualche follia, e rischiare.
Se a volte non fai qualcosa da matto la vita si dissolverà tra le tue mani, per svanire al primo soffio di vento. Bisogna correre il rischio, quello più grosso: fare quel che si desidera fare.
E questo nessuno ce lo porterà mai via.

(dedicato a C. per aver ispirato questa scrittura)

Articolo pubblicato su Nazione Indiana

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