L’avvilente ritornello sui disastri

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L’interesse sugli impatti delle dinamiche atmosferiche e ambientali e sul cambiamento climatico aumenta quando c’è un evento tragico. Nulla di nuovo. Cordoglio, tragedia, furia, natura violenta, lutto, ricostruzione. Tutto come da copione. Anche la gestione dell’emergenza, dove si arriva all’eccellenza.

E ogni volta si risente il solito ritornello: prevenzione, messa in sicurezza, cura del territorio.

Serve parlarne? Ha ragione Greta Thunberg? bla-bla-bla, bla-bla-bla. Perché, nonostante la ricerca, nonostante la conoscenza, nonostante gli allarmi, non accade nulla. O meglio continua ad accadere la stessa cosa: morte e disastro. Ed il bla-bla-bla è anche dei media nella cui agenda il cambiamento climatico o il dissesto idrogeologico irrompono come dei briganti solo quando l’impatto diventa disastro.

E poi si invoca la scienza, come si invoca San Gennaro o Dio. “Non ci hanno avvisato”. Purtroppo è anche vero, perché la scienza non è onnipotente e onnisciente, anche se spesso si propone come teocrazia medioevale. La scienza previsionale ha dei limiti ed è ora di dirlo chiaro e forte, ma anche di accettarlo. Nell’allerta meteo gialla infatti si dice che non sono esclusi eventi particolarmente intensi e localizzati di difficile previsione. Chi è consapevole di questa postilla? Credo pochi.

Siamo inerti, non inermi, nei confronti della conoscenza. Inerti perché aspettiamo che qualcuno ci dica cosa fare delegando a entità esterne anche la consapevolezza di dove siamo, di come interagiamo con il mondo esterno e in particolare con l’ambiente. […]

 


 

Avevo cominciato a scrivere questo post dopo l’alluvione nelle Marche (15 e il 16 settembre 2022). Poi avevo deciso di non pubblicarlo, perché da diversi anni ho smesso di riflettere e “dire cose” su questi temi. Il motivo? Perché, come dimostra anche questo post, in definitiva si ripete sempre lo stesso copione e non cambia nulla, nemmeno il cordoglio e i commenti.

Con la tragedia di Ischia però qualcosa di diverso è successo.

La dichiarazione Francesco Del Deo, sindaco di Forio d’Ischia. «Tutta l’Italia è a rischio sismico e idrogeologico, noi isole minori poi abbiamo anche il problema dell’erosione costiera. Ma se il territorio fosse curato come lo curavano i nostri antenati a inizio novecento… Ogni volta che c’è un’incendio rimane solo terra e pietre e quando piove frana tutto. E poi con queste bombe d’acqua non c’è sistema fognario che tenga, con questo cambiamento climatico bisogna ragionare diversamente e avere cura del territorio. Non diamo sempre colpa all’abusivismo, in questo caso è evidente che non c’entra» [link al video COPYRIGHT AGTW SRL ©]

Ecco questa affermazione non è proprio vera ed entra anche in contraddizione perché cura del territorio significa, almeno in termini  generali rispetto del territorio e delle dinamiche ambientali. Perché quel territorio è fortemente a rischio idrogeologico, come dimostrano le mappe pubblicate da ISPRA (non da un blogger complottista).

Cura del territorio significa non costruire su un terreno per sua natura cedevole e fragile, dove c’è un pericolo elevato, dove una colata di fango costituita da detriti vulcanici può spazzare via tutto. In questo caso la cura degli antenati, giusta e sacrosanta, non sarebbe bastata. Lo ha detto chiaramente Mario Tozzi a “Tutta la città ne parla” del 28/11/2022, e lo ha anche scritto in un articolo pubblicato su “La Stampa”: “Ischia è diventata meritatamente simbolo dell’anarchia urbanistica italiana, quella dei famigerati “diritti acquisiti” dagli abusivi, quella del cemento libero su ogni cosa. […] innalzare muraglioni di cemento su ogni singola località a rischio della penisola e delle isole, primo perché sarebbe orribile e innaturale, secondo perché sarebbe inutile.”

Quindi, se un sindaco fa quel tipo di affermazione significa che abbiamo perso. Abbiamo perso perché è evidente che non ci sia né una cultura né una competenza del rischio e che tutte le azioni e le campagne di informazione non hanno prodotto risultati utili.  Quindi abbiamo perso.

 

Prima riflessione.

Ha senso parlare ancora di comunicazione del rischio? Se la comunicazione del rischio non informa e non migliora la competenza, allora è inutile. E’ solo un esercizio di stile e un argomento per organizzare convegni roboanti. Sono quasi vent’anni che sento parole sul comunicare bene, sulla comunicazione scientifica, sulla comunicazione per predere decisioni informate. E’ cambiato qualcosa? A me non sembra. Anche i media, seguiranno la loro agenda e tra qualche settimana passeranno ad altro, perché non c’è notizia. A questo proposito suggerirei ai media nostrani di leggere “The Guardian’s climate pledge 2022. Six things the Guardian is doing to confront the climate emergency” Non risolve tutto, ma non credo che sia inutile. Ma il giornale inglese ha anche una sezione dedicata alla crisi climatica. In Italia, quale quotidiano online ha una sezione dedicata a questo tema e quindi anche ai rischi (alluvione, terremoti, ecc.)? Però ci sono quotidiani con ricche sezioni sugli animali domestici. Ma quello fa entertainment, parlare di clima o di rischi è più difficile e meno entertainment.  Quindi?

Anche le istituzioni dovrebbero fare una riflessione. Provate a cercare su web le mappe del rischio o banalmente delle informazioni su un luogo dove ad esempio volete andare a vivere, o trascorrere le vacanze.  Solo se sapete dove cercare riuscirete a trovare qualcosa e non sempre in formati accessibili o leggibili. Le soluzioni esistono, ma non sono praticate. Ne so qualcosa.

Seconda riflessione.

Progetti e ricerca. Di progetti ne sono stati fatti tanti, ma nella maggioranza dei casi quando finisce il finanziamento finiscono anche i progetti e quanto è stato prodotto viene disperso nella polvere. Non esiste continuità, non si sedimenta anche per attriti tra enti e gruppi. Cooperazione? Condivisione? Piuttosto Concorrenza e Competizione. Iniziano sempre con la “C” ma hanno tutt’altro sapore.

Sul fronte ricerca, molti studi e analisi sono disponibili, ma non sono alla portata di tutti. Molto spesso sono in inglese e questo non li rende accessibili e poi sono molto tecnici, specialistici, non adatti ad essere compresi. Manca l’anello di congiunzione, il raccordo tra ricerca e utilizzatori, tra questi ad esempio i sindaci, che non sempre sono competenti in materia, anzi. Che sia una piattaforma, che sia un’associazione, che sia un non-so-cosa, ma manca chi fa da raccordo, chi fa da mediatore tra scienza e politica. La ricerca è ricerca non fa attivismo. Ma forse bisogna chiedersi se non sia il caso di prendere spunto da “March for Science” e scendere dalle torri d’avorio per spingere e costruire questa mediazione.

Terza riflessione.

L’abusivismo, come dice l’architetto Fuksas, non ha una parola corrispondente in altre lingue e già questo fatto dovrebbe farci pensare. L’abusivismo non è solo un’azione contro le regole. E’ un modo di interagire con il mondo, che non rispetta i piani urbanistici , ovvero le regole che disegnano i territori. E’ l’epifenomeno di qualcosa di più complesso e simbolo della crisi del patto tra istituzioni e cittadini. Se poi rendo le procedure burocratiche oltremodo complicate, se non faccio i piani regolatori è quasi matematico che si troveranno dei modi per costruire in assenza o in deroga alle regole. Ma se non penalizzo chi va contro le norme e invece condono, si fa strada l’idea che prima o poi l’abuso sarà “normalizzato”. In altre parole, che senso ha stare alle regole se poi lo stesso Stato dà la possibilità di superare quelle stesse regole?

Paolo Berdini, nella “Breve storia dell’abuso edilizio in Italia“, ci ricorda nella sinossi del libro che “Nel 2009 il governo Berlusconi annuncia il «piano casa» con cui si possono aumentare i volumi degli edifici a prescindere da qualsiasi regola urbanistica. Nello stesso periodo, per la preparazione dei mondiali di nuoto e delG8 alla Maddalena, si sperimenta il modello di deroga persino rispetto alle regole paesaggistiche e di tutela dei corsi d’acqua. Fenomeni di questo tipo sono impensabili e sconosciuti in tutti gli altri paesi europei. Ed è urgente chiedersi quale sia il male oscuro che non permette all’Italia di divenire un paese in cui le regole sono rispettate.

Esistono condoni e condoni. Una veranda che chiude un balcone è una cosa, un’ampliamento di una casa è un’altra e la costruzione su terreni non edificabili perché a rischio ancora un’altra. Hanno costruito sopra le faglie, dentro gli alvei dei fiumi, nelle prossimità di frane, su coni alluvionali. Ignoranza o corruzione?  Quanti disastri sono stati causati da imperizia voluta o non vista? Non ha importanza, il risultato è che persone hanno perso la vita e nessun condono o risarcimento le farà tornare tra noi.

Questo per dire che l’abusivismo non è solo un fatto burocratico-amministrativo è anche una questione di rispetto delle norme  di sicurezza. Ma se non c’è fiducia nello Stato, ed è evidente quanto il rapporto Stato-Cittadini sia sfibrato e logoro, ci sarà sempre qualcuno pronto a non fidarsi della necessità di quelle norme, perché le riterrà assurde e inutili come a volte sono alcune norme.  Nota a latere: E’ stata mai fatta una ricerca su come i cittadini vivono e percepiscono la Pubblica Amministrazione? Come la valutano in termini di efficienza? E’ qui c’è un nodo culturale e sociale grosso. Costruire ed alimentare la fiducia nello Stato è fondamentale perché le norme siano rispettate. Un lavoro enorme che non ha bisogno di proclami, ma di azioni concrete. Il senso di appartenenza a una nazione passa dalla fiducia e non dal consenso costruito sui condoni.

Se qualcuno ha costruito e qualcun altro ha condonato, senza assumersene la responsabilità, di cosa parliamo? E pensare che si parla anche dell’abusivismo di necessità. Qualcuno me lo deve spiegare questo concetto un po’ scivoloso.  La questione nonostante sia complessa, in fondo è elementare. Area a Rischio = Vietato Costruire, e chi lo fa dovrebbe essere sanzionato e la costruzione demolita (altri costi per lo stato?). E’ troppo? E troppo chiedere di non mettere a rischio la vita delle persone?
Invece di abusivismo di necessità si dovrebbe coniare un altro termine: decessi per abusivismo. Mi piacerebbe che qualche Data Analyst facesse una bella inchiesta e producesse una mappa dei disastri avvenuti in aree con costruzioni abusive/condonate in aree a rischio, con il conteggio del numero dei morti e dei danni, e sovrapponesse le mappe di rischio. Ma non credo che qualcuno lo farà mai. In caso contrario avrebbe diritto ad un lauto premio.

Quarta riflessione.

In Italia ci sono circa 8.000 comuni. Secondo Ispra “Aumenta nel 2021 la superficie nazionale potenzialmente soggetta a frane e alluvioni: l’incremento sfiora rispettivamente il 4% e il 19% rispetto al 2017.  Quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio dissesto e soggetto ad erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità. Segnali positivi per le coste italiane: dopo 20 anni, a fronte di numerosi interventi di protezione, i litorali in avanzamento sono superiori a quelli in arretramento.” [fonte ISPRA]

I Sindaci, che tra l’altro sono Autorità Comunali di Protezione Civile, hanno le giuste competenze per gestire un territorio così fragile? Ricordiamo che non ci sono solo le grandi città, che hanno mezzi e risorse, ma in Italia esistono tantissimi comuni piccoli e medi.

Senza togliere nulla ai Sindaci, che hanno responsabilità di governo molto articolate, mi chiedo se non abbiano bisogno di essere affiancati ad esempio da un geologo, proprio per gestire un territorio così esposto a diversi tipi di rischi (idrogeologico, sismico, vulcanico, meteo). Un geologo per ogni comune: sarebbe sbagliato? Perché le competenze necessarie a gestire questi rischi non si possono improvvisare. Ricordo che in un piccolo comune del nord un sindaco si era messo in testa di spostare una frana, e aveva anche trovato la ditta che prontamente aveva fornito un preventivo. Forse questo è un caso limite, ma è indicativo e non credo che sia l’unico aneddoto del genere.

 

Quinta riflessione.

Le dinamiche ambientali non si fermano con una colata di cemento. Anche quando si parla di rischio zero, si dice una bestialità. Non esiste il rischio zero. Esiste però la possibilità di ridurre il rischio, che ricordiamo è il prodotto di probabilità, vulnerabilità e esposizione. Agire sulla vulnerabilità abbassa il rischio. Ridurre al minimo il rischio questo forse potrebbe essere possibile.

“I disastri si verificano quando i pericoli incontrano la vulnerabilità.” dicono Raju, E., Boyd, E. & Otto, F. nell’articolo “Stop blaming the climate for disasters.”  Ed ancora, “I rischi naturali come le inondazioni, la siccità e le ondate di calore diventano disastri a causa della vulnerabilità della società, ovvero della propensione di persone, società ed ecosistemi a subire danni. […]. Questo è stato riconosciuto da tempo, ma i disastri continuano a essere interpretati come un “atto di Dio” o descritti come “naturali”.  DIscorso che vale anche per altri eventi come ad esempio i terremoti. Mentre bisogna lavorare sulla vulnerabilità e lasciar perdere l’inutile retorica del rischio zero. Perché il rischio zero non esiste.

 

In conclusione

Vorrei solo che questo semplice post invecchiasse e fosse superato da una realtà operativa virtuosa che ha imparato dall’esperienza a non gestire il territorio e le vite umane con arroganza o con fatalismo. Vorrei solo essere smentita dai fatti.  In fondo sono ancora una sognatrice.

 

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