All’incirca due anni fa decisi di mettere radici. Avevo cambiato città e case troppe volte. Compresi che volevo una vita semplice, fatta di cose semplici. Ripescai il mio sogno di vivere in campagna. Trovai una mediazione sia perché il mio budget era ristretto, sia perché per una persona da sola è difficile vivere in un luogo isolato. Così, per una serie di non-casualità e con un po’ di fortuna trovai un borgo in Toscana. Nella Toscana agricola e concreta, vicino Livorno, sulle colline pisane, vicino a un bosco. Trovai una piccola casa vecchia, o antica, dipende dai punti di vista.
Così cambiai vita senza sapere esattamente a cosa andassi incontro. Feci qualche lavoro, scelsi di riscaldarmi con la legna, portai le mie cose, e con creatività addobbai le mie radici. C’era anche un piccolo giardino, abbandonato pieno di erbacce, che mi ha regalato l’insegnamento della fatica e della cura per ottenere qualche risultato. Passai diversi pomeriggi a sistemarlo e ogni volta mi sentivo come se facessi qualcosa di bello, faticoso e amorevole.
Noi che abbiamo vissuto in città abbiamo creato una poetica della campagna e della natura, immagini patinate come quelle dei giornali. Ma la realtà è diversa.
Lo scoprii una notte di maggio. Un temporale sostenuto e un forte vento. Casualmente mi affacciai alla finestra e vidi un palo della staccionata caduto in mezzo alla strada. Mi precipitai al piano di sotto sperando che non passasse nessuno e ringraziando di avere avuto l’istinto di guardare dalla finestra. Uscii sotto la pioggia in camicia da notte. La pioggia bagna. La pioggia è vera e in campagna è una cosa diversa dalla città: è acqua, è necessaria, ma può fare danni.
Tirai su il palo, lo assicurai con una corda e una volta rientrata in casa mi infilai sotto la doccia calda e contenta andai a dormire. Ma un pensiero mi teneva sveglia: perché ero contenta, perché non ero arrabbiata?
Il motivo era semplice: quel contatto con la natura mi aveva dato energia e mi aveva fatto capire che non era colpa della pioggia ma del mio palo, e del modo in cui l’avevo fissato. Stare lì sotto la pioggia per difendere una piccola cosa, un niente di fronte alla maestosa natura. Non si ferma la pioggia, non si ferma la neve. La natura deve fare il suo corso, siamo noi che ingombriamo la sua strada: costruendo dove non dovremmo, modificando ciò che non dovrebbe essere modificato. Siamo noi uomini a rendere il nostro habitat più fragile e più vulnerabile, perché non abbiamo rispetto.
Anche in questi giorni di emergenza neve, non mi sono stupita: è inverno ed è normale che ci siano anche eventi eccezionali come questi. E quando accadono ci sono problemi a ricaduta: strade ghiacciate, blackout, tubature che si ghiacciano. Si può rimanere senza luce, senza acqua, senza riscaldamento.
Quando ero piccola mi ricordo delle nevicate immense: muri bianchi più alti di me, il freddo, le slitte per trasportare la spesa, le candele perché la luce saltava e le mattine a spalare perché la notte continuava a nevicare. Eravamo in montagna e ci sembrava normale.
Oggi invece tutti pensano che l’emergenza si possa prevedere (ora e minuti), si aspetta che qualcuno ci tolga d’impaccio, ci si arrabbia e si critica invece di collaborare e dare una mano. Ci si scandalizza se non ci sono 200 spalaneve pronti…. forse pensiamo che i robot esistano e che siano pronti a fare i lavori pesanti per noi (l’etimologia di robot è illuminante).
Qui ho re-imparato che la natura è stupefacente: le piante, i frutti, la terra. Ma non possiamo stravolgerla e asservirla senza pensare di non pagarne le conseguenze. La natura, la terra, sono faticose, impongono tempi e modi che poco hanno a che fare con la frenesia e la velocità dei tempi moderni, o con il controllo completo e senza sbagli.
La natura ci insegna che anche noi possiamo sbagliare ed essere impreparati.
Il mondo intorno a noi ha un suono che spesso non sentiamo perché urliamo troppo, o perché la nostra musica copre tutto il resto, perché abbiamo dimenticato la musica.
Ascoltiamo il suono del mondo e impariamo a suonare con lui.