Sono colpita da quanto è accaduto in Sardegna e da ciò che sta accadendo in altre parti del paese. E proprio in questo momento condivido una riflessione scaturita dalla lettura del coraggioso articolo di Antonio Lupetti “L’alluvione in Sardegna e l’inutile utilità dei social network“.

Oggi ho letto qualche articolo, qualche post su Facebook, qualche tweet che chiamavano a gran voce la presenza della protezione civile sui social media, come se i social media avessero qualche capacità taumaturgica, qualche magia attribuita alla techne, per risolvere.  Social media, ma per dire cosa? Cosa diciamo degli errori, delle imprecisioni e degli allarmismi che il “popolo della rete” macina senza chiedersi se le informazioni sono vere o false? Scatenarsi in rete senza capire dov’è il problema dell’informazione sui rischi, quali sono le necessità in corso di evento, e per contro tacere di fronte all’uso scritteriato del territorio, lo trovo sterile. (consiglio di rivedere la puntata di Gazebo del 19 novembre).

Non credo sia da discutere la presenza della protezione civile sui social media (questo è un non-argomento), bensì si dovrebbe riflettere su un utilizzo del web 2.0 più strutturato e consapevole, come strumento in più (e non sostitutivo) a supporto dell’informazione di protezione civile prima, durante e dopo un disastro.
Strutturato significa organizzato, gestito, coordinato, con obiettivi e task precisi e mirati. Consapevole significa competente sia del fenomeno che delle procedure, sia del vocabolario (le parole da usare) che dei propri limiti, sia della tecnologia che della comunicazione. Le esperienze estere come quella del DHN (Digital Humanitarian Network) dovrebbero farci capire che non è avere un account social, ma gestire un flusso preciso di informazioni utile sia ai cittadini che ai soccorritori, sia ai media che alle istituzioni.
Significa costruire un team coordinato, competente, autorevole e riconosciuto che a testa bassa si metta a disposizione e raccolga informazioni, le validi, le faccia passare e le divulghi.  Lo spontaneismo non paga, Lenin avrebbe detto che è una malattia infantile. Lo spontaneismo porta  a concentrarsi sull’emotività e a spettacolarizzare un evento (a strumentalizzarlo talvolta) che non ha bisogno di chiasso, di rumore di fondo, ma di solidarietà e azioni. Se ci si attiva in emergenza, bisogna pensare che servono informazioni utili ai soccorsi e alla gestione dell’emergenza, per censire i danni, per gestire i campi di soccorso. Servono piattaforme e competenze per ascoltare, selezionare, diffondere, calcolare, mappare. Se leggete questi documenti pubblicati da DHN vi renderete conto che non c’è spontaneismo nell’organizzare una task force che supporti il sistema dei soccorsi in corso di evento, c’è un’adesione spontanea, volontari in remoto, ma ai quali è richiesta una competenza e un saper fare e soprattutto esiste una regia che stabilisce cosa fare e affida i compiti.

Per  questo però ci vuole volontà, coordinamento, risorse. Non azioni di singoli.

Ma torniamo al prima.

In qualsiasi rischio il problema grande è la vulnerabilità.
“La vulnerabilità indica l’attitudine di un determinata “componente ambientale” (popolazione umana, edifici, servizi, infrastrutture, etc.) a sopportare gli effetti in funzione dell’intensità dell’evento.” (citazione da sito istituzionale che sarebbe da tradurre in “linguaggio naturale”)
Ci sono fattori naturali che predispongono un territorio, ma ci sono azioni dell’uomo che aumentano la vulnerabilità. E poi c’è la frammentazione amministrativa che complica le cose.
E’ sulle azioni dell’uomo che bisognerebbe focalizzare l’attenzione. E quindi interessarci “prima” e non quando accade.
Perché quando accade si tratta di tacere e agire per il soccorso.
L’emotività del momento è giusta, la commozione e il cordoglio, giusti anch’essi.
Ma quando passa…. la memoria cancella e non osserviamo più ciò che abbiamo intorno a noi.

Un articolo accademico che ha fatto storia è “Citizens as Sensors” di Michael Goodchild. Ebbene cittadini sensori, sensori significa che sono sentinelle del territorio, e non cantori del territorio quando ormai il danno è successo, o per auto promuoversi. Monitorare come sensore il territorio significa contribuire a leggere e interpretare il territorio. Contribuire a svelare e a rendere trasparente la  vulnerabilità esperita e non percepita, e a conoscere la vulnerabilità, anche chiedendo. E in questo le istituzioni dovrebbero collaborare: inondare i cittadini di informazioni organizzate, esplicite e comprensibili e ascoltare la voce del territorio.
Perché non è il meteo ad essere killer (letto su un quotidiano online), non è l’acqua a fare strage. Sono le azioni degli uomini, e le non-azioni, che aumentano la nostra vulnerabilità, è la nostra capacità di capire quando siamo in pericolo e perché, e cosa fare prima. Abitare in una casa costruita su un letto di un fiume è come giocare alla roulette russa.  Costruire e far costruire nel letto di un fiume è puntare un arma contro chi ci abiterà.  Ma se nessuno ci andasse ad abitare, quelle case sarebbero vuote quando arriva l’acqua.
Bisogna sapere e conoscere. E non è semplice. Faccio un piccolo esempio.

Ogni sera quando rientro a casa devo fare una strada in mezzo alla campagna. La strada costeggia un lago artificiale e poi inizia una discesa, e dopo una curva imbocca il ponte sul lago. Molte volte mi sono chiesta quanto io sia vulnerabile, nella mia macchina, al buio, dopo quella curva. Nonostante sappia, conosca, la mia soglia di attenzione non è sempre alta. E per un attimo di distrazione potrei imboccare il ponte ed essere travolta dall’acqua. Cosa fare? Ricordare sempre la propria vulnerabilità, sapere che quando piove non c’è fretta che tenga, che bisogna rallentare e stare attenti. Ecco. Conoscere prima la propria vulnerabilità e non sperimentarla. E se il lago dovesse essere ad un livello troppo alto, dovrei poterlo segnalare, dovrei fare il sensore. E il mio messaggio, che sia un tweet, una segnalazione, un sms, una telefonata, dovrebbe essere incanalato raccolto e ascoltato. Riflettiamo: prima, durante e dopo. Queste le dimensioni per diminuire o gestire meglio la nostra vulnerabilità.

Poi ci sarebbe tanto da dire su come vengono comunicate le allerta meteo, sul linguaggio, sugli strumenti, sulle informazioni e sulla comunicazione. Ma non è questo il contesto. Questo è un semplice post, di un non-blogger.

One Response

  1. Bello leggere queste cose ed ancor più bello leggere che sono le stesse cose che anche io sostengo da anni ricevendo però sempre pesci in faccia.

    Basterebbe implementare e sviluppare il concetto di Early Warning ad esempio e, forse, la reazione della popolazione sarebbe più veloce, strutturata e consapevole (non parlo ovviamente in questa sede di tutti quegli interventi di natura strutturale sul territorio che esulano dal campo della comunicazione).

    Purtroppo però siamo in un Paese in cui si pensa sempre DOPO piuttosto che prima. E qui, mi spiace, ma non posso che riportare le sante parole del buon Bertolaso che disse “meno sagre della salsiccia e più prevenzione”.

    E la prevenzione, lo sappiamo, passa anche attraverso una giusta, corretta ed efficace comunicazione ai cittadini. Prima e dopo.

    Ciao!

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